Pubblichiamo integralmente il contributo del prof. Sergio Cristaldi in occasione di "Unict per Dantedì", l'iniziativa con cui l'Università di Catania ha aderito al giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri
Il contributo del prof. Sergio Cristaldi, ordinario di Letteratura italiana al Dipartimento di Scienze umanistiche dell'Università di Catania a "Unict per Dantedì", l'iniziativa con cui l'Università di Catania ha aderito al giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri.
Ingovernabile, estremo, incostituzionale, alieno dalla mediazione e dal compromesso, salvo in qualche episodio circoscritto di cui doveva pentirsi subito, Dante è stato per vocazione, oltre che per una serie di circostanze occasionali, contro il sistema vigente. Anche il rapporto con la propria parte politica (perdente e destinata a oscillare fra convulsi ripiegamenti e conati velleitari di rivincita) egli lo ha vissuto in maniera estremamente libera, pronto a contestare decisioni e mosse che non gli parevano adeguate, a difendere posizioni controcorrente, senza temere il dissidio e la rottura. L'ossequio, poi, che porgeva ai suoi protettori era sincero, ma tutt'altro che incondizionato, tanto che poteva trasformarsi in aperta contestazione, e non in privato, al contrario in documenti pubblici, destinati alla circolazione più ampia. È anche per questo che le istituzioni stesse gli hanno reso omaggio, anche se (inevitabilmente) in seconda battuta, dopo il tempo dell'incomprensione e dello scontro. Adesso il governo italiano, con iniziativa meritoria, ha stabilito che il 25 marzo sarà giorno dedicato alla memoria di Dante; a partire, ufficialmente, dal 2021, quando si compiranno i settecento anni dalla sua scomparsa. Quest'anno, la scadenza giova a un opportuno rodaggio delle celebrazioni.
Siamo disposti ad accettare questo soggetto anticonformista e intemperante, tanto nella vita quanto nelle opere? Per la verità, nemmeno i riconoscimenti postumi sono stati esenti da perplessità e diffidenze, più o meno larvate. Ogni epoca ha avuto difficoltà ad accogliere senza riserve un pensiero irregolare, a convalidare per intero un capolavoro abnorme come la Divina Commedia, e ha preso le sue brave contromisure censorie. Più volte è risuonato un cave, per linee o porzioni del poema giudicate irricevibili, da passare sotto silenzio e magari rimuovere senz'altro. Naturalmente, le idiosincrasie, col tempo, hanno mutato segno. Il classicismo rinascimentale e post-rinascimentale indietreggiava rispetto a una gamma linguistica impura, con espressioni da trivio accanto ad effati sublimi. Oggi, quella suscettibilità ci fa sorridere: noi moderni, osservava Gianfranco Contini, ci sentiamo solidali con il temperamento linguistico di Dante. Ma a dirla tutta, avvertiamo noi stessi un disagio, restando sconcertati di fronte a pagine di inaudita violenza ideologica, tanto da domandarci se non sarebbe meglio ometterle, per non offendere la sensibilità di nessuno.
Nec tecum vivere possum nec sine te. Dante disturba e al tempo stesso affascina, e la passione per lui è contagiosa, basta che un interprete minimamente sensibile si faccia avanti e, senza direttive dall'alto, tanti si mettono in ascolto, giovani e meno giovani, acculturati e indotti. Quanti nostri scrittori hanno una simile capacità di presa, che coinvolge platee anche lontane nel tempo e nello spazio? Mentre ridimensionava molte fortune letterarie in auge nel belpaese, la globalizzazione lavorava a favore di Dante, incentivando un prestigio in grado di attecchire presso sponde davvero remote, con tradizioni e disposizioni mentali in apparenza incompatibili. Se nel primo e pieno Novecento era il Nord-America a entusiasmarsi, fino a creare una scuola interpretativa di indiscutibile dignità scientifica e ancora in pieno vigore, adesso tocca ai Caraibi e al Giappone la felicità di una scoperta, e chissà che gli stessi compatrioti del grande italiano non debbano, domani, risentire positivamente di un rimbalzo da tali contrade, in fondo è quanto già avvenuto con tesi elaborate nel Massachusetts o a Baltimora. E non dobbiamo trascurare i nostri vicini, visto che Francia e Germania non vogliono restare indietro, e neppure la terra di Albione, che può richiamarsi al dantismo di Thomas Stearns Eliot e di Clive Staples Lewis.
Come si spiega questa incisività a largo raggio, che acquista nuovi adepti senza cedere quelli di lunga data? Cospira certo una maestria espressiva, una debordante immaginazione in grado di creare non solo personaggi, ma interi mondi, dandone contezza nell'insieme e nei dettagli, come fossero in tutto e per tutto reali ed effettivamente visitati. Il reportage sembra rievocarli, quando invece li sta suscitando, e noi abbiamo il sentore di percorso della memoria, non di un esclusivo avanzare della scrittura. Lo comprova la scelta, per il Dantedì, del 25 marzo, che non è il giorno della nascita o della morte del festeggiato, ma del suo ingresso nel paese in cui invero non è andato mai, anche se ha delineato la porta con la scritta minacciosa, la riviera d'Acheronte, i gironi, le cornici, le rispettive conformazioni e misure. La Divina Commedia, constatava Charles S. Singleton, è una finzione che pretende di non essere una finzione, e non c'è dubbio che il poeta la sostenga con una fantasia tanto robusta da non temere l'apporto della teologia cristiana e della fisica aristotelica.
Esiste un modo sottile per invalidare questa costruzione, ed è quello di chi professa ammirazione per la poesia di un capolavoro irrinunciabile ed estraneità verso le convinzioni e aspirazioni veicolate. Come se si potessero scindere le forme dai contenuti, godendo di una imagery che galleggia nel vuoto, priva della sua sostanza, o di significanti orfani dei significati originari. Se la poesia è dire un pensiero nella sua forma più bella, allora non si può scambiare per rivestimento giustapposto (ed estraibile) ciò che è invece manifestazione organica di un nucleo intimo, né credere nella maggiore durata dell'ornamento a fronte dell'obsolescenza di ciò che sarebbe stato adornato. Dante, del resto, accostava la sua poesia alla profezia, concependo la propria attività non quale somma di due vettori distinti, magari in stretta collaborazione, ma quale tensione unitaria: la grande poesia, ai suoi occhi, è in quanto tale profetica, come ha sempre sottolineato Nicolò Mineo, nella sua lunga carriera di interprete dedicato. Poteva paragonarsi, l'autore della Divina Commedia, ai profeti dell'Antico e del Nuovo Testamento, a Ezechiele e Giovanni, poteva presentarsi come nuovo Paolo, venuto a sua volta a dare speranza. L'appello dei versi danteschi propone una rivelazione e aspira a intercettare, giudicare, modificare i comportamenti, chiedendo ben più di quella sospensione dell'incredulità a cui è invitato ogni fruitore di testi letterari a vocazione di intrattenimento. Il lettore di Dante è sollecitato a fare il viaggio insieme al protagonista, assecondando non solo la fantasia dell' auctor, ma anche la sua sollecitazione al cambiamento morale.
Significa questo trattare le ombre come cosa salda, assolutizzare il senso letterale del testo? Anche i profeti biblici, invero, si servivano di immagini, personificazioni, quinte multicolori che non vanno prese alla lettera o, meglio, che è impossibile prendere alla lettera (Dante tiene più di loro alla verosimiglianza degli scenari). Nemmeno siamo tenuti a immedesimarci con i principi di Dante, con le convinzioni che professa, il futuro da lui annunciato. Le sue certezze religiose sono quelle di un uomo del Medioevo: a chi asseriva che non è dato intendere davvero Dante senza essere cristiani (l’intransigenza sta sempre in agguato) è stato fatto notare, e giustamente, che un cristiano del nostro tempo, fatta salva la convergenza sugli articoli di fede, avrebbe per il resto non poco da eccepire. Tanto meno attuali le valutazioni politiche, già all'epoca schiettamente partigiane e, per molti versi, anacronistiche. Quando Dante annuncia la prossima rivalsa del Sacro Romano Impero sulla renitenza della casa di Francia, spalleggiata dalla Curia papale, sta fraintendendo il corso storico, anche se adesso è molto facile opporre alle sue aspettative un poco costoso senno del poi.
Che significa allora misurarsi con la proposta di Dante? Un altro esponente prestigioso del canone occidentale, Goethe, ha avvalorato le domande universalmente umane (e lo evidenziava di recente Alberto Casadei). Le esigenze e gli interrogativi radicali fanno la grandezza dell'uomo, che è fragile, esposto, soggetto all'urto cieco di una contingenza a volte micidiale, eppure è dotato di una dignità incomparabile rispetto a quell'urto, in forza appunto della propria coscienza, della propria istanza di significato. Il rapporto con la poesia si colloca in questo orizzonte: un lettore impegnato con la vita investe l'opera con il fuoco delle proprie domande e viceversa l'opera investe il lettore, lo scuote dalla sua distrazione, dalla banalità in cui magari è scivolato, risvegliando in lui il bisogno di senso. Non è detto che le risposte coincidano, ma questo conta fino a un certo punto.
La Divina Commedia esprime in maniera potente un'esigenza umana fondamentale, quella di non morire, e ancora di rivedere le persone amate che non sono più: non per caso il viaggio di Dante nell'Aldilà è stato ribattezzato Journey to Beatrice. Non meno intenso il bisogno dantesco di giustizia nella storia, dove sembra dominare una corruzione inaccettabile, una sete distorta di avere e di potere: «quando verrà per cui questa disceda?» Se ci sintonizziamo su questa lunghezza d'onda, sapremo recuperare in tutto il suo spessore la bellezza del poema dantesco, senza necessità di distinguerla dalla sua forza d'impatto morale.
Dante può cambiare la vita. Ma questa è la pretesa di tutta la grande poesia, come ricordava George Steiner. Semmai, Dante non nasconde in nessun momento una simile ambizione, la porta al massimo grado di intensità, come mostrano i suoi reiterati, invadenti appelli al lettore. Se impariamo con Dante una disponibilità, saremo più ricettivi verso altri scrittori, verso ogni provocazione che la poesia deposita.