Giornalismo e social, la primavera araba, la difficile vita dei freelance: questi gli argomenti trattati dai vincitori dell'edizione 2018 del Premio internazionale di giornalismo dedicato a Maria Grazia Cutuli
Sabato 24 novembre 2018, nell'aula magna del Polo didattico del dipartimento di Scienze politiche e sociali dell'Università di Catania, i tre vincitori dell'edizione 2018 del premio internazionale di giornalismo dedicato a Maria Grazia Cutuli, la giornalista catanese inviata del Corriere della Sera assassinata in Afghanistan il 19 novembre 2001, hanno tenuto delle lezioni magistrali sul giornalismo, introdotti dal direttore del dipartimento Giuseppe Vecchio e dall'editorialista del Corriere della Sera Antonio Ferrari.
I premiati della XIV edizione del riconoscimento assegnato dal Comune di Santa Venerina sono stati: per la sezione “Stampa italiana” il giornalista Fabrizio Gatti, dal 2004 inviato e giornalista investigativo per il settimanale “L’Espresso” per il quale ha svolto inchieste prestigiose che nessuno aveva avuto il coraggio di portare alla luce; per la sezione “Stampa Estera”, la giornalista egiziana Dina Ezzat, vice caporedattore del settimanale egiziano in inglese Al Ahram weekly, abbinato al quotidiano Al Ahram. Attualmente scrive anche per l’edizione web Al Ahram Online; per la sezione “Giornalista siciliano emergente” Stefania D’Ignoti, 24 anni, catanese, freelance specializzata in questioni mediorientali.
“In un mondo dominato dai social - ha osservato Gatti - il giornalista conserva ancora un ruolo importante: certificare l’autorevolezza di ciò che viene raccontato. I produttori di social media non rispondono di ciò che viene scritto. Non hanno responsabilità. Il giornalista sì. Anche se le nuove tecnologie, da cui non si può ormai prescindere, hanno determinato una trasformazione del suo lavoro, il giornalista fa una sintesi dei fatti. Ha un ruolo di mediatore tra i fatti e la notizia”.
Gatti ha poi illustrato quelle che, a suo dire, sarebbero le vere cause dell’immigrazione: “Gli Occidentali continuano a saccheggiare le zone del Medio Oriente e dell’Africa. Si pensi ad esempio alla Francia la cui energia nucleare è alimentata dall’uranio prelevato dal Niger, ex colonia francese. Nel Niger, però, il 97% della popolazione non ha accesso all’energia elettrica. All’ospedale pubblico del Niger c’è l’energia elettrica ma non sempre funziona. Consultando i registri della camera mortuaria, ho trovato giorni in cui c’erano picchi altissimi di mortalità. Ho chiesto il perché. Mi è stato risposto che ciò accade quando manca la luce e non si possono accendere i ventilatori e la temperatura sale oltre i 50° C, le ferite si infettano e aumentano le morti di bambini ed anziani.
In molte parti dei paesi mediorientali la gente va via perché le zone sono diventate aride. I pochi alberi presenti sono stati abbattuti per produrre energia. Non vi sono pozzi di acqua. In cambio di tangenti di alcune decine di migliaia di euro intascati da qualcuno, questi territori vengono depauperati delle loro ricchezze minerarie. Dietro le grandi correnti migratorie degli ultimi anni vi sono, quindi, la povertà e lo sfruttamento. Ma l’immigrazione, se manca l’attività di sintesi svolta dal giornalista, viene vista come un fatto a sé. Eppure basterebbe poco per creare lavoro in queste zone. L’Ong ‘Terre solidali’ e l’Università di Torino sono riusciti a creare venti posti di lavoro con un microcredito di 25.000 euro a sostegno di iniziative imprenditoriali stabili affidate alle donne in Niger, Paese chiave del traffico di migranti verso la Libia”.
“I venti di cambiamento della primavera araba – ha ricordato Ezzat - sono partiti, nel 2011, dalla Tunisia in cui le proteste della popolazione hanno costretto il dittatore Ben Alì a lasciare il paese e a rifugiarsi in Arabia Saudita, dove si trova ancora. Ci sono stati assassinii e attacchi terroristici ma la gente non ha rinunciato al sogno di una democrazia che onori e rispetti la sua volontà. Prima, nel 2004, durante una mia permanenza a Tunisi per un servizio giornalistico su un incontro di ministri arabi, un impiegato dell’albergo in cui alloggiavo, ad una mia protesta per un’ispezione della stanza, mi ha detto: ‘Viviamo giorno per giorno cercando di rigare dritto perché in questo paese se dici qualcosa che infastidisce la polizia potresti finire dove nessuno ti troverebbe mai’.
“Forse oggi la Tunisia si è liberata di questa paura – ha osservato la giornalista -, da quello che sento parlando con i tunisini o con i diplomatici. Non è il caso della Siria, dove la paura la fa ancora da padrona. In Siria ed in altri paesi della primavera araba, i dittatori ed i loro collaboratori hanno soffocato la spinta alla democrazia. Assad, dopo la caduta di Mubarak in Egitto, di Gheddafi in Libia di Alì Abdallah Salah in Yemen, decise che non avrebbe fatto la stessa fine dei tre, sfruttando la diversità etnica presente nel paese, ha orchestrato una guerra tra popoli. Il mondo ha chiuso un occhio su ciò che stava realmente accadendo, permettendo che la speranza della democrazia lasciasse il posto ai conflitti nei quali i gruppi terroristici avessero un ruolo chiave. Il conflitto tra dittatore e popolo che sognava la libertà e la giustizia si è ridotto a conflitto tra dittatura e militanti estremisti islamici in cui la gente ha dovuto scegliere guardando solo alla propria sopravvivenza”.
“Il giornalismo freelance del XXI secolo – ha raccontato D'Ignoti - è un lavoro fatto di solitudine, nel senso che siamo soli ad occuparci di tutto. Ci improvvisiamo ricercatori, traduttori, autisti, fotografi, tecnici del suono, commercialisti, agenti di viaggio, giocolieri del tempo. Molti di noi decidono di partire per dei reportage nelle cosiddette aree di crisi. Andiamo sul campo, corriamo dei rischi, non vogliamo essere considerati dei supereroi desiderosi di attenzioni, lo facciamo perché sappiamo che, altrimenti, molte storie umane importanti cadrebbero nell’oblio. La nostra missione è di aiutare a creare una memoria collettiva per fare in modo che certi errori non vengano nuovamente commessi“.
Kim Wall era una giovane donna europea, reporter in aree di guerra che ha perso la vita di recente, l’8 agosto 2017, uccisa e fatta a pezzi da una delle fonti su cui stava scrivendo una storia: “In Italia se n’è parlato poco – ha sottolineato Stefania – ma la sua storia mi è particolarmente cara. Kim aveva pubblicato reportage da Haiti, Sri Lanka, Uganda, Cuba, Cina, isole Marshall eppure è morta nella civile Europa, vittima di un becero maschilismo che rende anche donne forti come lei dei semplici burattini alla mercé di uomini che decidono il nostro destino, anche quando stiamo svolgendo solo il nostro lavoro. Anche lei era diventata freelance, testimone di storie che non sempre vedranno la luce”.