Il 31 marzo 2015 gli ultimi sei ospedali psichiatrici giudiziari verranno chiusi. Lo stabilisce una legge che mette fine a esperienze che si sono rivelate spesso inutili o dannose. Ma com'è stato possibile fare finta di niente per più di un secolo? Il documentario Aria di Francesco Migliorino, ordinario di Storia del diritto medievale e moderno dell'Università di Catania, prova a dare una risposta
Gli ultimi mille usciranno dall'abisso nel quale sono caduti da troppi anni entro il 31 marzo del 2015. Lo ha deciso il Parlamento, concedendo lo scorso maggio l'ultima, definitiva proroga alla chiusura degli Ospedale psichiatrici giudiziari. In Italia ne restano sei: Aversa (Caserta), Castiglione dello Stiviere (Mantova), Montelupo Fiorentino (Firenze), Napoli, Reggio Emilia e Barcellona Pozzo di Gotto, per un totale di 1.004 internati.
Un'istituzione ermafrodita, a metà strada tra carcere e ospedale, nata nella seconda metà del secolo XIX non a seguito di una legge, ma come figlia di un regolamento interno alle carceri: serviva un luogo dove relegare chi, dietro le sbarre, dava segni di squilibrio. Buchi neri, raramente indagati dalla stampa nazionale. Illuminante e drammatica eccezione è stata, nel 2011, la videoinchiesta del programma di Rai3 Presa Diretta, che, seguendo la visita ispettiva della commissione parlamentare guidata dall'allora deputato del Pd Ignazio Marino, ha testimoniato le condizioni disperate di alcuni Opg, tra cui quello di Barcellona Pozzo di Gotto. Storie, volti, voci che hanno scosso il Paese. Ma come è stato possibile il protrarsi per quasi un secolo di questa situazione?
Nel 2006 Francesco Migliorino, professore ordinario di Storia del diritto medievale e moderno nel corso di laurea di Giurisprudenza dell'Università di Catania, ha realizzato un documentario, Aria, che contribuisce a cercare una risposta a questa domanda. Un video fatto di fotografie, ritrovate dentro uno scatolone abbandonato nell'archivio dell'Opg, accompagnate dalla lettura di alcune lettere scritte dagli internati e dalla musica di John Cage. «Per decidere della consapevolezza che un'istituzione ha di sé, bisogna guardare nel suo archivio», spiega Migliorino. E quello della struttura barcellonese è una babele di documenti e immagini, un disorganizzato miscuglio tra archivio storico e quello corrente. «In fondo a uno scatolone – racconta il professore - c'erano delle foto in bianco e nero che non si inscrivevano nel genere letterario della fotografia psichiatrica». Non c'era vita. Stanze vuote di ogni forma di vita, ombre di luci che si portavano appresso il nitido profilo delle inferriate alle finestre, corridoi che scorrevano infilati uno dopo l’altro, camerate lasciate in penombra, officine ancora pulite e ordinate.
«Mi chiesi perché le avevano fatte – continua Migliorino - Scoprii che si trattava di ragioni amministrative, servivano per relazionare alla Direzione nazionale per gli stabilimenti carcerari quanto era stato realizzato. Queste foto mi aiutarono a capire che per non restare impigliato nella trama delle singole storie, bisognava decifrare il congegno che aveva reso possibile ogni singola storia, ma che ne avrebbe potuto accogliere mille volte tante». Un lavoro di ricerca e approfondimento andato avanti per tre anni. L'occasione che ha reso possibile la realizzazione di Aria è stata un convegno a Barcellona (Catalunya) a cui il docente catanese viene invitato. Sul tema Come la fotografia ha modificato nell'immaginario sociale il rapporto tra diritto e giustizia. «Quando ho cominciato a frequentare l'Opg, il 60 per cento degli internati non aveva commesso reati di particolare gravità, né aveva dato segni di allarme sociale – analizza Migliorino - Con molti di loro sono entrato in contatto, dialogando spesso. Il primo dato che mi colpì era che nessuna figura - dal direttore al comandante delle guardie, agli impiegati amministrativi, ai volontari, al cappellano militare – difendeva il dispositivo di cui era parte. Tutti erano convintissimi dell’inutilità, dell'inefficacia e del danno che produceva alle persone e alle istituzioni. Mi chiedevo: come mai non si fa in fretta a chiudere?». Una possibile spiegazione comincia a emergere proprio grazie alle foto trovate quasi per caso. «Una macchina astratta, un'idea che fa riferimento al concetto di astrazione reale che Marx elabora nel primo libro del Capitale – spiega il professore - era talmente autoreferenziale e autopoietica che non s’incaricava di classificare individui concreti, ma piuttosto radunava individui che servivano concretamente al suo funzionamento. A militare era il tipico meccanismo delle classificazioni: andare alla ricerca di tutti gli individui che permettono a una struttura di funzionare».
La variabile che porta un essere umano in carcere per scontare la pena inflittagli, o in un ospedale giudiziario, dove la possibilità di proroga di due anni senza limiti ha generato molti ergastoli bianchi, è il principio di imputabilità. O meglio, quello che nell'ordinamento italiano, viene chiamata la capacità di intendere e di volere. «E' un concetto che viene teorizzato dalla modernità, a partire dall'Illuminismo e che non era presente negli ordinamenti premoderni, ma che nasconde sin dalla sua nascita una contraddizione – spiega Migliorino – Secondo il principio delle porte girevoli di Michel Foucault, dove entra la follia esce il delitto e viceversa. E' su questo che si fonda il principio della non imputabilità. Ma allora perché si approntano una serie di severe misure securitarie per chi viene considerato folle?». Migliorino trova una motivazione in uno stereotipo nato insieme alla modernità: la paura delle classi pericolose, degli anarchisti, del brigantaggio, del revanscismo borbonico. «Uno stato di eccezione continuo, che sospende il diritto. Un timore tipicamente borghese che è rimasto nell'imprinting del sistema penale post-unitario». Secondo il docente dell'università di Catania una delle conseguenze è proprio la doppia parentela tra follia e pericolosità sociale e tra follia e malattia morale. «Altro che porte girevoli – spiega –. Piano piano, sostenuta dalla psichiatria di stampo positivista del tempo, si è andata insinuando la convinzione che la follia è di per sé pericolosa e quindi imparentata con il crimine. Il principio di non imputabilità è rimasto una mitologia della modernità, così come l'uguaglianza».
Eccolo lo snodo fondamentale per capire come mai gli Opg hanno resistito così a lungo. Un lascito dei saperi sociali di fine '800 e inizio '900, a partire dalle teorie lombrosiane, secondo cui «il delinquente assomiglia al delitto prima ancora di averlo commesso». L'altro stereotipo radicato è la parentela tra la follia e la degenerazione morale. «Qualcosa di impuro – sottolinea Migliorino - Il folle evoca spesso l'idea stessa della perversione: non è vero che urina per strada e ha atteggiamenti sconci?». Per questa via, con la modernità il «patologico» diventa sinonimo dell’«anormale», la sfera biologica si salda a quella morale.
Il documentario Aria vuole aprire una finestra su questi ragionamenti. Lo fa attraverso le foto e tre lettere scritte dagli internati – due non sono autografe, la prima è di un epilettico che aveva ucciso un uomo che racconta alla moglie la visita ricevuta in cella dal ministro di Grazia e Giustizia del governo Mussolini, Alfredo Rocco – e mai giunte a destinazione. «Ho preferito non dare un nome ai personaggi delle mie storie, perché – spiega il professore - se confini vicende umane così tragiche nel loro tempo storico le privi della loro forza evocativa e finisci per rasserenare chi le legge o le guarda».
Tra qualche mese l'ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto verrà chiuso. «Partiamo da un presupposto – premette Migliorino – a differenza di quanto sostengono alcune posizioni radicali della psichiatria secondo cui la follia è un'estrema forma di ribellione alle storture della società capitalistica, la follia è una malattia e come tale va curata. In questa legge ci sono gli elementi per applicare davvero il principio delle porte girevoli e per l'individualizzazione di un percorso terapeutico, la chiamata alla responsabilità dei servizi sociali, dei magistrati e delle Regioni». La nuova legge considera gli Opg luoghi inadatti alla cura, perché negli Opg non si guariva e certifica che la pericolosità sociale non può essere dichiarata o confermata solo perché la persona è emarginata, priva di sostegni economici o non è stata presa in carico dai servizi socio sanitari. Vengono fissati limiti precisi alle proroghe della misura di sicurezza (causa di molti ergastoli bianchi), che non può essere superiore alla durata della pena per il reato commesso. Dà la possibilità alle Regioni di rivedere i progetti per le Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria, cioè i mini Opg regionali da non più di 20 posti) diminuendo i posti letto previsti (più degli attuali ricoverati) per renderle quantomeno residuali. E utilizzare invece i finanziamenti per la riqualificazione dei dipartimenti di salute mentale. Obbliga infine le regioni a presentare entro 45 giorni i percorsi terapeutico-riabilitativi di dimissione di ciascuna delle persone ricoverate negli Opg. «È una buona legge – conclude Migliorino – ma bisogna continuare a vigliare e non abbassare la guardia».